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A. Pagni, Strade possibili, 2011

A. Pagni, Strade possibili, 2011

Finalmente online il nuovo sito web!

Vi do il benvenuto augurandomi che i sentieri e le strade da percorrere siano ogni volta una scoperta.

E nel fare questo prendo a prestito parole mie, scritte in un altro luogo e in un altro contesto (la morte di Gabriele Basilico in un post di due anni fa per Foto For Fake), perché credo chariscano alcuni semplici ma essenziali principi da portare sempre nella propria sacca da fotografo, quando si rischia di perdere di vista sia la direzione che l’essenziale e soprattutto di prendersi troppo sul serio.

“Oggi è uno di quei giorni in cui detesto la fotografia, non perché è morto Basilico (quello è il triste epilogo di una sofferenza che merita solo tre cose, rispetto, un tono sommesso e il ricordo), ma per essermi talmente appassionato a questa forma di espressione, cattura, comunicazione, aberrazione, bugia, da provare frustrazione e sconforto davanti alle opinioni altrui, da scoprirmi arrabbiato e fragile di fronte a idee totalmente divergenti dalle mie.
Qualche volta però riesco a fermarmi e mi sento ridicolo, mi impongo di prendermi meno sul serio, che non serve, non ha senso, perché la fotografia è un gioco, inventato da persone che adoravano meravigliarsi del mondo, come Daguerre (che certo adorava anche il vitalizio derivato dal suo prezioso brevetto) e il suo assurdo e ingombrante Diorama.
Così dovrei essere io, invece di sprecare tempo e parole a sovrastare con la mia voce le prepotenze altrui su riviste e blog, o innervosirmi di fronte al mancato saluto di fotografi arroganti con la presunzione di un traguardo: dovrei essere più leggero e impiegare ogni minuto libero a sperimentare e scoprire le possibilità del medium.
Imparando dal sorriso mordace di Fontcuberta.
Non dimenticando mai Lartigue, in quell’autoritratto, da bambino, mentre “gioca” a immortalarsi nel gesto di giocare: la felicità elevata al quadrato.
E di nuovo lui, ormai adulto, che coglie con uno scatto Szarkowski, mentre se la ride di gusto sotto quei baffi da Groucho Marx e dietro a quegli occhiali che hanno fatto tendenza fra gli intellettuali, perché si ride con gli occhi ancor più che con la bocca.
E l’imperativo di somigliare a Man Ray, con indosso la sua maschera e una corona d’alloro, mentre tiene in braccio Juliet e lei lascia andare la testa indietro ridendo, a ricordarci di certe cose che sbiadiscono più tardi dei sali d’argento e che danno alla stessa fotografia, un sapore che sopravvive alla sua durata fisica.
Così la Eleanor di Harry Callahan, indagata con la stessa struggente ostinazione che tormentava il protagonista de L’avventura di un fotografo di Calvino, annullato dall’urgenza di documentare e raccontare ogni istante dell’amata Bice.
O ancora, Robert Mapplethorpe che scruta Patti Smith e, con il suo occhio di vetro, impara a conoscerla, più e meglio di qualsiasi altra persona, come amante, fratello, amico e compagno.
E infine, Charis Wilson, che fissa in camera mentre ci mostra come la guardava Weston, centinaia di stagioni prima, e in parte sembra che sorrida e in parte è incerta: nel raccontarci quanto siamo minuscoli e immensi.”

Buona fotografia.



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